XII

I GRANDI CANTI PISANO-RECANATESI DEL 28-30

È nel periodo pisano (tra fine del ’27 e metà del ’28) che si attua la nuova disposizione vitale e la ripresa della poesia portata ad una delle sue zone piú alte e non perciò paradigmatica per tutta la poesia leopardiana e conclusiva sua mèta e, d’altra parte, non cosí puramente «idillica» come la si è a lungo affermata, tante sono le forze e i motivi che vi confluiscono e vi si svolgono, anche se dominate da una poetica che raccoglie il senso profondo della esperienza vitale, sentimentale, conoscitiva, in una specie di piú temperata ed equilibrata misura interiore, corrispondente alla maturazione, a nuovo livello, del rapporto poesia-filosofia in forme di altissimo «canto», di voce fusa e perfetta e pur densa e tutt’altro che aspirante ad una purezza senza passione e tensione: come ho già indicato attraverso le citazioni di pensieri fondamentali preambolari a questa fase poetica e che cosí diversamente configurano lo stesso metodo della rimembranza e della lirica suggestiva, della «doppia vista» del poeta rispetto ad un semplice e individualistico bisogno di «pittore dell’anima sua» e della degustazione dolce-amara del passato, privo di ogni vero nesso sia con le verità disperate che proprio nel periodo pisano e recanatese raggiungono la loro conclusività estrema, sia con il sentimento degli «altri» e con la passione per la sorte comune degli uomini.

L’avvio è dato da una generale ripresa di vitalità che trova appoggio in Pisa e nelle sue offerte fra paesaggio, consonanze recanatesi[1], propizio equilibrio fra solitudine e piú affabile socievolezza[2], mentre lo stesso esercizio compilatorio della Crestomazia poetica (dopo l’edizione e il commento petrarchesco) sorregge la ripresa del desiderio di poesia e di riesame poetico della propria vicenda biografica, letteraria, intellettuale attraverso scelte di brani della tradizione poetica italiana tutte interessantissime o per il riavvicinamento a testi già usufruiti nella sua prima gioventú (donde la larghissima parte data al Varano) o legati a componenti idilliche-elegiache, melodiche, didascaliche, descrittive e gnomiche che riaffiorano con il loro fascino di esperienze già fatte, con l’attrazione di consonanze nuove con la nuova esperienza in fieri. E un esame, qui impossibile, dimostrerebbe quanta fertilità di motivi, di schemi, di particolari suggerimenti di linguaggio possano ritrovarsi nella larghissima parte data a rimatori del secondo Settecento nei confronti della poesia leopardiana di questi anni.

E del resto già il piccolo componimento Lo scherzo del 15 febbraio 1828 denuncia l’utilizzazione da parte del Leopardi dello schema galante gnomico di uno «scherzo pittorico» del De Rossi (La fucina d’amore), mentre esso avvia la ripresa poetica attraverso quel profondo amore leopardiano per la cura stilistica che egli vedeva perduta fra i moderni, sciatti e approssimativi, e a cui si collegava quella profonda cura del linguaggio poetico che è componente fortissima della perfezione dei canti di questo periodo.

Ma il vero avvio è, come ben si sa, Il risorgimento, anch’esso pieno di richiami settecenteschi vicinissimi all’esperienza contemporanea della scelta della Crestomazia poetica e impostato su di una fondamentale presa di coscienza della propria ripresa vitale e poetica, insieme lucidissima, simmetricamente scandita e ritmicamente alacre e rapida, sicché anzitutto è proprio il ritmo di canzonetta (con quante allusioni alla vitalità e alla lucidità brillante ritrovabili nella poesia canzonettistica settecentesca!) che esprime il «risorgimento» della sensibilità e del cuore, il desiderio di vita malgrado la certezza implacabile del passato per sempre passato, delle speranze per sempre perdute, delle verità drammatiche per sempre conquistate.

Non poteva perciò il Leopardi trarne un assurdo inno alla vita e ad una stolta speranza presente, ma ben poteva su quella spinta della rinnovata alacrità sentimentale e poetica annodare la ricerca delle «avventure storiche del suo animo», la poeticità della ricordanza e della «doppia vista», sia come recupero del passato e delle persone scomparse (e dunque lotta contro la morte malgrado la sua inesorabilità), sia come spostamento della sua lotta contro il presente stolto e le ideologie «positive», ottimistiche-egoistiche, come lotta, con la forza della poesia, contro l’aridità, l’utilitarismo calcolatore, la non-vita del suo tempo «senza passione» e quindi senza vera poesia.

Nel capolavoro di A Silvia la poetica di questo periodo si realizza con eccezionale perfezione e novità di costruzione, di metrica –, la formidabile sperimentazione metrica trova qui una misura di libertà autoregolantesi nella strofe libera come espressione del movimento interno – di linguaggio che fonde «vero» e «vago», «pellegrino» e «popolare», lontano dalle forme «ardite» di altri periodi e con una luce profonda che si espande dal senso della concretezza (le vie dorate, in cui il fascino vago della doppia vista e del ricordo nasce da una luce intrisa nelle cose e dunque al di fuori di ogni smaltatura neoclassica e da ogni realismo mimetico, o gli occhi ridenti e fuggitivi, cosí labili e radiosi nel suono e nella luce e pur cosí legati alla concretezza degli «occhi» nella loro fisicità), mentre tutto, tutto trae il suo impulso centrale e la sua misura tensiva e perfetta dal profondo motivo bipolare della ricordanza che recupera il passato della fanciulla scomparsa e delle speranze perdute del poeta (facendone con sottili scambi allusivi tutt’uno, senza sdoppiamento di «persona» e di «allegoria»[3]) e sembra poter superare luminosamente la barriera della morte e poi – urtando contro questa e il desolato presente – convalida l’inesorabile cesura del «mai piú», ne scopre l’invalicabile muraglia e rivela la tragica caducità di tutti gli uomini, nati per la morte e per il dolore, sfatando significativamente la stessa religione foscoliana dei sepolcri «onorati di pianto» e di «gloria». E il motivo animatore (allontanandosi dall’impiego del «contrasto» brusco ed energico e utilizzando una forma di «trapasso» piú elegiaco, e coerente all’attuale tono di «lamento» piú che di «grido» della protesta leopardiana) si svolge in tutta la sua esauriente completezza, lasciando una scia luminosa-malinconica, idillico-elegiaca, in cui i due termini reciprocamente si commisurano e si rinforzano. Ché quanto piú luminoso è il passato perduto, tanto piú triste è il presente e amaro il futuro, e quanto piú tristi sono questi, tanto piú l’animo tende a recuperare e ricostituire tutto il fascino di quel passato. E cosí la dimensione del nulla, della morte, del dolore (il «giardino» di Leopardi!) si intreccia con quella dell’aspirazione alla vita còlta nel beato momento della gioventú ignara e nella figura «lieta e pensosa» della fanciulla popolana con le sue attese di gioia modeste e schiette, con la sua gentilezza naturale ed autentica, mossa sulla soglia della gioventú fra sentimenti nascenti e abitudini laboriose e serene di cui gli imperfetti sottolineano la continuità domestica ed intima nel passato, rotta dai passati remoti della morte e della scomparsa totale.

D’altra parte in una probabile iniziale ripresa dello sgorgo poetico nel nuovo confronto di se stesso con la situazione passata e presente, nella rinnovata solitudine recanatese, la sua poesia della ricordanza si angola diversamente (fondendo passato e presente) nel Passero solitario.

In questo componimento (a mio avviso composto nel ’29, probabilmente fra primavera ed estate, e ricollocato nei Canti fra i primi idilli solo per coerenza con una situazione e forse con una prima intuizione piú giovanile) il ripensamento della propria esperienza di escluso involontario dalla partecipazione alla vita nella sua zona fervida giovanile – accentuato dal nuovo attrito con la situazione recanatese – si dispone, attraverso un sottile metodo di assimilazione e dissimilazione con l’immagine «vaga» del passero, delle sue abitudini e della sua natura senza dolore e con la duplice e contrastante rappresentazione della festa paesana e della propria solitudine, in una direzione che sottolinea una natura e vizio di absence che potrebbe consolidare l’immagine della «vita strozzata» e della osservazione idillica alla finestra, almeno di se stesso. Ma che insieme cosí fortemente esalta comunque l’intenso desiderio leopardiano per una vita di rapporti (non un compiacimento di eletto alla solitudine) còlti nel fervore della festa popolare centrata nel «mira ed è mirata, e in cor s’allegra» (e persino nella letizia degli uccelli non isolati, ma istintivamente «contenti» in una festa solidale, per contrasto, con la solitudine nella peggiore sigla della vecchiaia «quando muti quest’occhi all’altrui core») e che d’altra parte trova potente correzione nella auto-reinterpretazione delle Ricordanze dove la condizione di «romito e strano», e sin di misantropia intermittente, è saldamente legata alla condizione del carcere recanatese e paterno, vincendo le incertezze, gli interrogativi, i pentimenti del Passero, muti quando la «beata gioventú» rivela pure il suo inganno e il suo fascino intenso ma illusorio e fugace.

Ma dopo il Passero la poesia del ricordo avviata da A Silvia si ripercuote e si rinnova (nell’eccezionale alacrità di questo ciclo) nelle modernissime Ricordanze, che solo certa intransigenza «puristica» poté ridurre e decurtare della loro grandissima forza poetica, non comprendendone il nesso e la diversità rispetto alla perfetta e dinamica simmetria di A Silvia. Ché il lungo discorso poetico si dispone in un diagramma piú sinuoso e vario, con un andirivieni fluente e irrequieto della memoria, non franto e discontinuo, ma piú complesso e capace di portare fino in fondo lo stesso senso della «ricordanza» cosí chiaramente definito nella terza lassa della poesia:

[...] Qui non è cosa

ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro

non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per sé, ma con dolor sottentra

il pensier del presente, un van desio

del passato, ancor tristo, e il dire: io fui

e poi ulteriormente rivelato nel suono e nel senso dei versi finali dedicati a Nerina:

[...] Ahi tu passasti, eterno

sospiro mio: passasti: e fia compagna

d’ogni mio vago immaginar, di tutti

i miei teneri sensi, i tristi e cari

moti del cor, la rimembranza acerba.

Al di là del suo impiego nel recupero della dolcezza del tempo passato e del suo urto col presente che a quello ancora vanamente rimanda, il ricordo rivela il suo fondo estremo di amarezza e di acerbità. Il passato e l’epoca delle speranze sono per sempre scomparsi, la persona (simbolo concreto di quel passato luminoso) è totalmente scomparsa e i vivi possono soltanto intrecciarne il ricordo amaro ai loro sentimenti piú profondi: non altro che questo.

E da ciò proprio trae la sua eterna forza l’«eterno / sospiro mio» di cui è oggetto Nerina per sempre scomparsa e che è come la suprema e quasi assurda risposta dell’affetto alla sicurezza della caducità ineluttabile degli esseri amati, della loro totale «eterna» scomparsa. Non perciò quell’«eterno» può precisarsi come una specie di mistica speranza ultraterrena (la morbida e frivola certezza fogazzariana usque dum vivam et ultra), ma piuttosto può sentirsi in consonanza, entro la spinta iperbolica dell’animo appassionato, con la materialistica e altissima precisazione di Feuerbach: «ti amerò in eterno: cioè finché avrò vita».

Sulla prospettiva di questo diagramma e della sua mèta finale, scaturita dal lungo attrito della memoria nel continuo urto con il presente e nella sollecitazione coerente della «doppia vista» (l’oggetto e la sensazione attuale rivela la sua allusione piú favolosa e sentimentale all’«altro» poetico del passato), le «avventure storiche» dell’esperienza leopardiana sgorgano incessantemente colorandosi insieme del fascino della vita infantile e giovanile, delle sue care consuetudini di letizia protetta ed ignara del successivo e inevitabile apparire della verità e della sventura (si pensi almeno alla rievocazione delle giornate invernali che accentuano con l’esterno – il profondo e semplice incanto del «chiaror delle nevi» e del «sibilo del vento» – la situazione infantile di una sicurezza e intimità fervida e lieta, protetta nel chiuso dell’interno domestico) e dello struggente confronto con la realtà presente spregiudicatamente aggredita fino alla forza dantesca della designazione del «natio borgo selvaggio», della gente «zotica, vil», del «soggiorno disumano», della «greggia ch’ho appresso» a cui il poeta con piú acuta consapevolezza fa risalire il suo sdegno di escluso e di vittima portata al disprezzo degli uomini, con l’acquisto di una diagnosi della sua vicenda tanto diversa da quella, nel Passero solitario, di una naturale incapacità di partecipazione alla vita.

Al sommo di questo lungo attrito poetico denso di sensazioni, di concretezza di esperienza, e perciò capace di slancio fantastico e suggestivo, si apre il decisivo finale in cui la figura personale scomparsa, il «tu» amoroso, recuperato nel ricordo a vincere la solitudine attuale, compaiono appunto al termine della poesia come la cosa piú importante e decisiva per questa poesia di conoscenza e di esperienza della propria vicenda umana. E qui elegia ed inno si fondono in movimenti supremi di ritmo di danza e di immagini (sempre piú radiose nel recupero di una estrema vitalità e bellezza, struggenti nella certezza dalla loro caducità e totale scomparsa) in cui il Leopardi approfondisce, con inesausta forza poetica, la sua fondamentale passione per il caduco umano, per la sua effimera e perciò tanto piú affascinante vitalità, còlta nel suo «passare» rapido e ineffabile su di una terra che risuona del suo sotterraneo vuoto assoluto e si colora delle sue parvenze incantevoli, quanto piú sappiamo che la vita è solo un «passare» su «colli odorati», nel respiro e nell’attrazione di beni essenziali e caduchi («l’aria», «i campi»); che nulla sopravvive alla morte e che, per gli uomini, non vi sono altri luoghi di incontro e di colloquio, sicché questi unici luoghi in cui passiamo e ci amiamo ricavano dalla prospettiva atea e decisamente incredula di Leopardi, dalla sua esclusione risoluta di ogni al di là ultraterreno, proprio la loro carica maggiore di incanto e di passione. Ché nessuno – Leopardi ben lo sapeva e lo viveva – tanto pur ama la vita quanto chi ne conosce la brevità e la caducità, l’irripetibilità delle concrete persone, e la guarda proprio dal margine estremo della morte e della sua inesorabile chiusura di ogni speranza, di ogni incontro, di ogni vita, che è sempre vita con gli altri, come la morte è la morte degli altri a noi e di noi agli altri.

La tensione poetica delle Ricordanze consuma in sé tutte le piú profonde possibilità della poetica della «rimembranza» e i due idilli successivi – La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio – spostano la impostazione non verso isolate e supreme prove di mitizzazione idillica (e perciò addirittura «cima della poesia leopardiana» senz’altro) ma verso un raccordo quadro-sentenza perfetto, ma piú fragile e temperato, anche se internamente coerente alle linee di una poesia che non vuol solo «dipingere», ma evocare e conoscere, ribadendo – in un dittico di esemplare complementarità – il carattere attimale e sfuggente di quella felicità che proprio in un pensiero dello Zibaldone del 27 maggio del ’29 Leopardi sottolineava come un «bisogno, vero bisogno, come quel di cibarsi» datoci dalla natura e da questa insieme negato a tutti i viventi, ché «gli animali non hanno piú di noi se non il patir meno; cosí i selvaggi: ma la felicità nessuno»[4].

Perciò non manca ai due canti piú «idillici» un severo nesso con le verità essenziali giunte a conclusioni essenziali, e la loro poesia pur nasce sempre da una dialettica di rappresentazione e di conoscenza inseparabili, e non da un momento di intuizione felice e di sopraggiunta riflessione intellettualistica, ché il quadro è simbolo concreto della verità e questa sgorga, con la stessa voce poetica, dal sottile attrito della rappresentazione iniziale e dalla sua interna rappresentazione.

Ne nasce una poesia limpida e malinconica, alleggerita, non depauperata della densità della sensibilità e del pensiero, anche se la sua grazia squisita e semplice, il suo disegno visivo e melodico perfetto sembrano nella loro estrema temperatezza sfiorare il limite di una diminuita tensione e pressione interna, e le stesse «democratiche» figure di esseri semplici e schietti – in situazioni cosí normali e antieroiche e pur capaci di viva e poetica sensibilità (l’artigiano che mira il ciel sereno e canta) attraverso cui il Leopardi sentiva di poter verificare, in una realtà naturale e antiartificiosa, i corollari della impossibilità del piacere (fugace «figlio di affanno» o attesa vana di una festa che non verrà) – anticipano sí l’impostazione del Canto notturno nella voce naturale del pastore, ma non hanno di questa la complessità e la vibrazione piú interna, piú problematica, piú rappresentativamente umana[5].

Sicché la stessa formidabile pressione dei rari, ma strenui e decisivi pensieri dello Zibaldone di quell’anno che mostrano come sia sempre inseparabile la tensione poetica apparentemente piú «pura» da quella intellettuale qui condotta a esiti estremi e la ripresa – attraverso quelli – dell’ultima domanda dell’Islandese alla Natura, convergono piú energicamente nella genesi del Canto notturno (lungamente elaborato e arricchito di nuove strofe fra il 22 ottobre ’29 e il 19 aprile del ’30), mentre alla definizione del tono dominante di quel canto conduce piú chiaramente il pensiero del 2 maggio (il «lamento» rivolto alla natura[6]) e alla giustificazione della voce e personalità del pastore ben pertiene il pensiero del 31 marzo che dà particolare valore alla «ragione semplice, vergine e incolta» che «giudica spessissime volte piú rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata»[7]. E cosí, sfrondata la grazia e la limpidezza dei quadri e delle figure e delle voci dei due canti precedenti, il Canto notturno si apre ad una melodia-lamento e ad una figuratività piú profonda (quel paesaggio notturno astrale e lunare, quel deserto sconfinato e solitario in cui campeggia il pastore con la sua greggia, asociale ed astorico, e cosí voce primitiva ed autentica di verità e di domande universali nell’esperienza del dolore umano, della noia, dell’abisso «senza memoria» della morte e del suo senso umano di «venir meno / ad ogni usata, amante compagnia» e infine dell’intuizione dell’infelicità universale di tutti i viventi) in cui la pressione dei problemi e delle interrogazioni (che riassorbono una massa enorme di pessimistici interrogativi dalla sapienza biblica fino alla zona illuministico-preromantica) si esprime in tutta la sua raggiunta circolarità, contenuta nel giro delle strofe lunghe e pausate, nel lamento esistenziale funebre, pietoso, affettuoso, che ancora contiene nella poetica del vero e del vago, del canto melodico e temperato di malinconica dolcezza, una protesta sempre piú scoperta e tensiva, che sembra tentare la forza di indigamento di quella poetica e in parte prepararne, dentro, una svolta ulteriore dell’esperienza e della prospettiva poetica e intellettuale del Leopardi.

Con la voce del pastore il Leopardi ha portato sino in fondo la direzione dei canti pisano-recanatesi e non a caso quell’ulteriore poesia si concludeva nell’aprile del ’30, quando il Leopardi stava per abbandonare per sempre Recanati con i «ben sedici mesi di notte orribile» illuminata da quella eccezionale fertilità di poesia e squarciata dalla forza concentrata di alcuni pensieri dello Zibaldone che portano alle estreme conclusioni il pessimismo protestatario del Leopardi nella sua lucidità piú paurosa e sconvolgente e, mentre sottendono tutto lo sgorgo della poesia recanatese del ’29-30, particolarmente animano il fondo meditativo del Canto notturno.

E come non citare almeno – per la sua incisività ed esaurienza terribile – quello del 17 maggio 1829 che partendo da un pensiero di Rousseau lo capovolge interamente ponendosi definitivamente dalla parte dell’uomo incolpevole e «naturalmente» infelice e contro la natura e il suo ordine fondato sul male?

«Homme, ne cherche plus l’auteur du mal; cet auteur c’est toi-même. Il n’existe point d’autre mal que celui que tu fais ou que tu souffres, et l’un et l’autre te vient de toi. Le mal général ne peut être que dans le désordre, et je vois dans le systême du monde un ordre qui ne se dément point. Le mal particulier n’est que dans le sentiment de l’être qui souffre; et ce sentiment, l’homme ne l’a pas reçu de la Nature, il se l’est donné. La douleur a peu de prise sur quiconque, ayant peu réfléchi, n’a ni souvenir ni prévoyance. Ôtez nos funestes progrès, ôtez nos erreurs et nos vices, l’ouvrage de l’homme, et tout est bien». Rousseau, Pensées, II, 200. – Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. Animali destinati per nutrimento d’altre specie. Invidia ed odio ingenito de’ viventi verso i loro simili... Altri mali anche piú gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ec. Noi concepiamo piú facilmente de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poiché il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?[8]

Né dovrà dimenticarsi ancora almeno un altro pensiero (fra quelli che assicurano la infelicità totale e incolpevole all’uomo) in cui il Leopardi aggredisce in tono deciso, anche se ironico-malinconico, lo stesso «intelletto» autore dell’ordine naturale:

La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui di ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine[9].

Ed è chiaro che quanto qui si dice piú direttamente in relazione al Canto notturno e al suo fondo meditativo-problematico vale, sia pure in diversa misura, per gli altri canti pisano-recanatesi non considerabili come miti e miracoli di «poesia pura», tutti chiusi nella loro perfezione e senza profondo significato di verità poeticamente espressa, privi (come invece non sono) di un profondo raccordo con il processo incessante dell’indagine conoscitiva e, a suo modo, pragmatica, del pensiero leopardiano.


1 Si ricordino la definizione del fascino di Pisa per il suo «misto» cosí romantico di «cittadino e di villereccio» (nella lettera a Paolina del 12 novembre 1827 in Tutte le op. cit., I, p. 1296) e l’accenno alla «strada deliziosa che io chiamo Via delle rimembranze» in cui sogna «ad occhi aperti» e si assicura del suo ritorno al suo «buon tempo antico» in fatto di immaginazione (lettera a Paolina del 25 febbraio 1828, in Tutte le op. cit., I, p. 1308).

2 Agio che si riflette anche in certa scrittura disinvolta, scherzosa ed affabile di lettere come quella del 31 marzo 1828 (Tutte le op. cit., I, p. 1310) al fratello piú piccolo Pierfrancesco. Mentre anche la malinconia è avvertita nella sua gradazione di «malinconia dolce» (lettera al Pepoli del 25 febbraio 1828, in Tutte le op. cit., I, p. 1308) e le stesse persistenti affermazioni dolenti della sua situazione di fondo, di «noia e pena», si colorano di un tono piú dolce, pacato, quasi melodico (si veda la lettera al Giordani del 5 maggio 1828, in Tutte le op. cit., I, p. 1312).

3 L’identificazione poetica di Silvia e della «speranza» (con ciò che esse hanno di incantevole e di allusione malinconica alla loro caducità e a tutta la sorte umana) non solo era suggerita dall’abbozzo Canto della fanciulla precedente e diversamente atteggiato nel suo insieme rispetto al canto A Silvia (la voce della fanciulla che canta, «voce festiva de la speranza», e pur «sí triste» e struggente) ma si esplicita e fa da tramite alla genesi della figura di Nerina nelle Ricordanze nel pensiero del 30 giugno 1828 dedicato a esprimere il fascino «divino» (quel fascino «celestiale» che il materialista Leopardi poteva ben esaltare in una persona concreta e caduca senza alcuna concessione mistica e religiosa) di una fanciulla dai «sedici ai diciotto anni», «quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventú, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria di innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita» ... «Del resto, se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di sedici o diciotto anni, si aggiunga il pensiero de’ patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente) ne segue un affetto il piú vago e il piú sublime che possa immaginarsi» (Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 1158).

4 Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 1236.

5 Perciò, contro tutta una tradizione che culmina nella valutazione del De Robertis, e proprio in forza di una tutt’altra interpretazione della stessa grande poesia dei canti pisano-recanatesi, sono risolutamente avverso a quanto appunto il De Robertis (coerente del resto alla sua idea della poesia leopardiana) dice di questi due canti (cfr. G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, Firenze, 1944, p. 199 e p. 201): «non sono molti ormai che non vi riconoscano la cima della poesia leopardiana» asserendo insieme che «di qui la poesia leopardiana decade»: persino già in confronto col Canto notturno e prima della fase della nuova poetica sulla cui mia valutazione positiva quel critico finissimo e originalissimo, ma privo del senso della storia e della complessità «impura» della poesia, poteva, coerentemente da tal punto di vista, ma con tanto passionale acrimonia, intervenire polemicamente (attacco che fu per me la riprova di come io avessi con il mio libro del ’47 intaccato a fondo due essenziali linee interpretative, non solo quella crociana, ma quella rondistica e derobertisiana piú intonata alle poetiche della «poesia pura» novecentesca).

6 Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 1199. In quel pensiero il Leopardi, giustificando la sua filosofia dall’accusa di misantropia, e anzi osservando che essa, attribuendo ogni colpa alla natura, conduceva a liberare gli uomini dall’odio fra di loro, concludeva: «La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio piú alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi».

7 Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 1219.

8 Zibaldone, in Tutte le op. cit., p. 1233.

9 Zibaldone, in Tutte le op. cit., p. 1222.